Il Vento Nel Canneto

EDIZIONI ISOLA D'ORO, Benevento

Prefazione

Questa prima raccolta di poesie di Ugo Bortolin è già un corpus che comprende quattordici anni di attività poetica, portata avanti quasi in sordina rispetto a quella pittorica. Sono poesie scritte come diario interiore, a commento di giorni lieti e tristi, a memoria di godimenti e di sofferenze; scritte quasi a fissare una immagine di sé e per sé.

Ancora molto giovane, Bortolin si è formato alla meditazione dei nostri maggiori poeti contemporanei: da Ungaretti a Quasimodo, da Montale a Saba, Cardarelli. Ha poi mano a mano maturato una sua particolare libertà espressiva, che lo rende indipendente da ogni influsso e lo dispone ad ascoltare solo il suo cuore, messo a nudo, e la sua anima. Egli nota con partecipazione e a volte con disincanto ogni variazione di atmosfere e coglie con immediatezza le fasi di ogni scoperta interiore.

Incontra l'amore, la turbinosa esperienza che lo esalta, e, dopo la delusione, l'amarezza dell'abbandono che lo prostra e gli fa scrivere col sangue parole cupe e tremende. In questi momenti si sente lo smarrimento dell'uomo; poi la scoperta graduale di altri possibili approdi. Notevoli i ricordi del padre, della madre; la visione della sua terra del Nord dove è nato e di quella del Sud dove vive; la ribellione contro ogni forma di sopraffazione, la furiosa e potente invettiva contro la guerra, l'analisi puntigliosa, e tuttavia scandita con immagini balenanti, dei massacri avvenuti e possibili. Si sente l'uomo smarrito nel gorgo dell'esistenza, che lo avvolge, lo conturba, lo rende libero alla fine, con una presa di coscienza più alta.

Pur non avendo fatti studi letterari, Bortolin raggiunge una densità di linguaggio, una capacità di rendere, con immediatezza, lo stato d'animo, attraverso segni e parole (anche la punteggiatura ha un suo ruolo allusivo) che non escono mai fuori di tono, da far supporre accaniti studi privati e continue consultazioni di testi. O forse lo scavo dell'anima gli ha arricchito anche il linguaggio? Anche le parole usuali carica di senso nuovo: non si serve delle parole per orchestrazioni a puro effetto sonoro; non ci pensa neppure: talmente è abituato alla lettura della realtà che ogni parola richiama alla notazione degli accadimenti veri, che vive, e le parole gli servono solo per definire quanto il suo cuore ascolta. Anche quando la forma si scioglie in cadenze più ampie, da assumere quasi la veste di prosa, si sente il fluire del ritmo lirico, la stessa tensione del verso calcolato e conciso.

Certo Bortolin, con questa sua raccolta, si isola già dalla farragine dei tanti che impiegano la penna per cincischiarsi con le parole, che si gingillano con trofei di immagini e scoperte epidermiche. La sua poesia è un brano di vita recitato con voce intrisa di pianto e a volte con le labbra strette dalla passione che attanaglia l'anima.

CARMELO BONIFACIO MALANDRINO

129

lo dirò al cielo
che ci avvolge di azzurro
che ti amo
lo dirò alla terra
dove radici mettono i semi
lo dirò al sole
che irradia la luce dei giorni
e matura le spighe del frumento
lo dirò alla luna delle notti
quando dorati e vaghi lumi oppone
alle ombre delle cose
lo dirò alle stelle
che luccicano negli spazi tersi
lo dirò alle aurore
che rosseggiano sopra l'orizzonte
lo dirò agli uccelli
che allietano l'aria coi canti
lo dirò al vento freddo
che sìbila tra gli alberi spogli
del bosco
e intensa paura incute alle erbe
lo dirò alla pioggia
che batte sui vetri
delle case e sui tetti
lo dirò ai flutti
rapinosi dei fiumi
e alle acque impassibili che vanno
verso il mare
lo dirò ai silenzi dei campi
quando amari pensieri
inquietano l'animo stanco

ti amo
e lo dirò a tua madre
che sopportò i dolori del parto
con infinita pazienza e fiera
cocciuta persuasione
lo dirò a tuo padre
che per il tuo bene
fu umiliato emigrante
e il lavoro
gli cosparge la fronte di sudore
lo dirò alla gente
che invidiosi sguardi
volgerà al nostro procedere uniti
lo dirò alla vita
che mi ha dato gli occhi per vederti
gli orecchi per ascoltarti a lungo
le mani per toccarti e accarezzarti
lo dirò alla morte
che mi libererà dai tormentosi
spasimi e dalle impavide imprese
lo dirò al sangue
che scorre nelle tue colme vene
e vivifica la tua bellezza
lo dirò all'universo intero
che ti amo

io lo dirò e dirò ancora
di nuovo
che ti amo
finché forza avrà la mia giovinezza
e fiamma la speranza
perché io mai più
amerò dopo di te
AMORE

Ugo Bortolin

134

nella valle ove nacqui
la notte di santo Antonio
la ruvida gente del luogo
sulle aie accende un alto fuoco;
sta con gli amici e i parenti
a prelibare la ricotta fresca
i frutti sàpidi di una terra erma
o la carne su calme braci cotta.
I suoi riti ancora oggi
sono schietti e pagani;
qualcuno storie allegre racconta
o salaci scenette
e qualche volta si sdraia sul suolo
a rimirare nel cielo le stelle.
Dimentica per poche ore
che nell'uomo al potere
di averi ricco e privilegi
c'è odio ingordigia e avarizia,
c'è brama di lodi orgoglio e boria;
che ci sono le guerre
nelle terre lontane
tra popoli stranieri.
E anche nel nostro Paese
saturo di storia e civiltà antiche
ci svuota e dilania la violenza;
c'è inumanità e sopraffazione.
Ma nella vallata ove nacqui
la gente si scorda di città e borghi
di macchine e frastuoni.
Attorno ai falò fulvi e scoppiettanti
ci sono solo soavi rumori:
i fischi dei grilli nei cespugli
l'uggiolio di un cane scondinzolante;
o gli strilli dei bimbi
che giocano felici.
Qualche giovane allora
prende una chitarra un tamburo
e suona e canta insieme agli altri;
non ha importanza se una voce inconta
alcune note pronuncia stonate.
Se la ragazza che ami
ritrae la mano alla tua carezza
il tuo dolore si rivela lieve
e con un bicchiere riempito
di amaranto e frizzante vino
ti opponi al rimpianto dei giorni
quando non c'erano rughe sul volto
e l'amore era
l'agile edera che avviluppa
e avvinghia il tronco della quercia.
Nella valle ove nacqui
la vita è un retaggio
semplice e BELLO.
Di giorno
quando vai a pascolare gli armenti
tu ti libri nell'aria
come cosa leggera
insieme al vento delle colline;
puoi vedere il fiume nella piana
che somiglia a un serpe
i monti nevosi e distanti
nel silenzio che leva
un inno all'Eterno.

Questa vita e questa terra sono
il sogno che io cerco con affanno

Ugo Bortolin

130

ecco vedi: tu sei
ignara prigioniera della vita
ed io non so liberarti con mani
forti e buone;
non so usare le braccia
come invece il fabbro le tenaglie.
Io sono un uomo arido, ormai.
Tu lo vuoi:
ma come fare tenera violenza
ai tuoi grandi occhi
innocenti e smarriti
graffiandoti il corpo di donna
ancora informe?
Oh!,
sconvolgente Maria!:
a dura solitudine offerta!;
forgia una corazza
la tua fanciullesca ira:
saprai domani quanto è cattiva
l'umana discendenza.
Già oggi si acciglia
lo sguardo che tu volgi
al vivere infido e borioso
al camminare ipocrito distratto
della gente che schiva
le tue sante e pronte tenerezze.
E il tuo fiorire a stento
il tuo procedere guardingo e anelo
scava un rifugio
solitario e lontano
nei tuoi spazi profondi.
Domani non potrà mai consolarti
il sapermi disfatto dal rimorso;
la tua bellezza imperiosa:
oggetto
di attenzioni ambigue o mendaci;
di cupidigia
delle tue calde e pur vergini carni.
Saprai che anch'io
andavo conosciuto con sospetto
anch'io non ero un uomo sereno:
non seppi pigliarti con mani
di padre e tu avrai vergogna
di avere a me bene voluto

Ugo Bortolin

Premio Nazionale 3ª BIENNALE CASENTINO (AR)
MARIO LUZI, presidente della commissione giudicatrice

Se Tu Sapessi

se tu sapessi, amore lontano,
di questa valle e dei suoi luoghi chiusi!
Oh, se tu sapessi dell'oasi
dove io sono nato e cresciuto!
Se tu sapessi
il canto del cuculo,
del colombo il giro ampio e sicuro!
Se tu sapessi
di questi fondi cieli,
di queste vive terre
con i lavorati prati ermi!,
se tu sapessi
di queste tranquille foreste!:
vi rintocca di rado
l'ascia del boscaiolo,
vi razzola lento e grato
l'istrice sul suo tragitto ignoto.

Se tu sapessi
del vento e dei silenzi!...
Oh!, se tu sapessi di quello
che mi prorompe dentro

Ugo Bortolin

Premio Nazionale "PORTICO D'ONOFRIO" - CAMPODIMELE (LT) 1992

stamane, che le mie mani non hanno voglia di fare niente, sono su questa spiaggia dove un vento capriccioso scaglia le acque, sfiora la sabbia umida. Un sole tiepido non riesce a stordirmi e il mio sguardo vola oltre l'orizzonte. Visitano la mia mente i tuoi occhi ingenui, più grandi del cielo e del mare che ho di fronte: i tuoi occhi che sanno restituire significato ai sogni, brividi alle carni.

Io, che non so accontentarmi dei giri lenti dei gabbiani, spero oggi di annullare i miei pensieri, di arrestare i moti dell'anima nel gorgo della vita; gli impegni della giornata mi renderanno automa più perfetto di quelli costruiti con calcoli complessi!

E allora non sarà che avrò desiderio di viaggiare e di conoscere; di scorrazzare nei paesi dove non provano vergogna coloro che vivono d'incanti. Non avrò desiderio di stramazzare ebbro di gioia; di gridare e di giocare.

Ma ora, che io già sono come quel masso schiaffeggiato dalle onde, che ti confesso i miei sentimenti, non importa se mi coprono di ridicolo queste parole. Tanto per me il giorno muore adesso; adesso che l'aria è più splendente, adesso che mi fingo incosciente. Stella dai boccoli neri, non sai quale dolce meraviglia è racchiusa nella tua incontenibile giovinezza; e quanto fa male

Ugo Bortolin

Io: Levigato Dalla Vita (Sto Qui)

adesso sto qui, Madla:
ho già passato tutte le passioni
di uno schiavo, di un disalveato
ne(g)ro in Europa, in Italia
- imprigionato dai miei turbamenti
più niente riesco a buttare fuori
(con la mia pelle bianca
una musica non ho da suonare.
Aggiungi:
chi mi allunga la mano
mi pugnala alle spalle) -:
comunque, per fortuna:
tu: afferrata dai miei pensieri
«il tuo, quello di allargare
il mio spazio,
non è un labile gioco»;

io: levigato dalla vita (sto qui).
Sto qui, dinanzi a questo
mio plumbeo mare, a quest'ora
vespertina e spenta,
di Scauri. Per quanto stia buono
il mio tempo concreto,
smorto io sto affondato
nella malinconia,
così come gli scogli a Monte d'Oro:
in parte nell'acqua, in parte in aria.

Tu, Madla, non soltanto mi difendi
pur non muovendo, pur non indossando
toga di avvocata: o amore,
tu porti sulle spalle
anche la mia croce (interiore)

Ugo Bortolin

Finalista PREMIO NAZIONALE MIMESIS - GAETA (LT) 2001

Inno agli esiliati dalla vita

su questo canto NON passerà voce
di uomo; o di donna (in amore);
o di musicale strumento:
queste tragiche note, che io sperdo,
i ritmi accidentati che non spezzo
queste assonanze e pause scorticate
NON sono per le sinfoniche orchestre
per i grammofoni in sale affollate
per televisioni e radio aperte.
Ora che sono qui, su questa riva
dove crescono i giunchi
dai pini ombreggiata
e il sole alto e divampante
mi pare che si schianti
sulle spiagge lasciate
del morbido Tirreno, ble oltremare,
e per me annega alla foce
marrognola e falba del fiume,
mi spappola il cervello (in azione)
ciò che è memoria (recente
soprattutto – di opere insulse)
dell’uomo perverso guerriero;
l’altro ieri
lo strepito fiammante dei fucili
vestiva di lutto la Terra:
trasmigrata e ferma: quanta esistenza!
quanta vita fuggita
verso forme stiacciate:
o stornata e trita!
Sulle alture ondulate
quanta la steppa
e quante plaghe
di deserto bruciante!...
nel marciume il fogliame
e ovunque consunzione.
Quanto esteso silenzio scassato!
Erano armati il razzo invasore,
i carri veloci oltre il passo
su cui scorrazzavano desti
e accovacciati i cupi malviventi;
nelle astiose carlinghe assisi.
La sabbia nelle lacrime colava
sui rinsecchiti visi dai cieli
delle vedove, delle donne miti
e di qualunque madre martoriata.
I guaiti rapiva alla gola arsa
e consumata dei fanciulli smilzi
e scalzi il tornado rabbioso
scagliato dalle dune e dalle rupi.
Che scienza l’elettronica: esatta!
L’atomica! L’umano e numeroso
bersaglio suscitava MERAVIGLIE
NUOVE E SINISTRE
agl’improvvisi scoppi micidiali;
nuove armi per insaputi entusiasmi:
NUOVI SPORT. L’eco acuta dei rimbombi
delle zuffe aspre, degli spazi rotti
rendeva - rende ancora - stupefatti
gli alberi sotto le vette innevate:
le lande e perditerre collinari
nei burroni i ghiacciai;
le isbe le pievi assolate
nelle praterie il pigro bestiame
gli animali furtivi
gli uccelli del ladrocinio e le belve.
I cunicoli fondi e le caverne
di questo sperduto pianeta
madido di sangue sudore e pianto:
e i colombi.
Il dramma!: l’altro ieri: ieri. Oggi.
Il furore; ed il terrore: muti!
«sudore dagli ansimanti pori!».
La guerra spalancava le sue fauci:
crepitava spavento e ossessione:
la paura nei cuori
dei giorni a venire.
Il sogno nuovo e soave (o triste)
fatiche immense elargiva e tensione
agli uomini della soccombenza.
Le tempeste piovevano lapilli
caligine e cenere in terra
e sui tetti mentre scintille
s’innalzavano a volo;
nell’odore di zolfo
le disperate canne
di bambù si storcevano al suolo
presso le are
e le radure dei secchi defunti;
durante le battaglie,
a nùgolo, IO non so quanto sangue
sacro, misto a vari liquidi impuri,
sozzi, gettavano in straripanti
laghi i rivi dai corsi sconosciuti!
I figli degli schiavi
orfani diventavano e spossati;
le corse dei monelli
per scavalcare ostacoli e steccati,
gli SCATTI
per spalancare madie vuote e cesti
coperti: senza briciole di pane,
nemmeno tosto, privi di farina
di mais. Non c’erano crema e latte
di bufala, di capra e neanche carne
tagliata e farcita
pronta per la cucina
perché i masnadieri
non gli UOMINI VERI
avevano razziato gli armenti
bruciato gli ovili.
Lancinanti e lunghe sofferenze
ghermivano allo stomaco i bambini.
Ma chi si vergognava - si vergogna -
delle madri e mogli con la mente
arrovellata e una incipiente gobba
con una livida e cascante pelle
con le flaccide o smagrite forme?
Alzi una mano, e bene in vista,
l’uomo della vergogna,
che non prova vergogne!
Ma in quale cuore, o speciale vita,
in quale antro oscuro
in quale impensato nascondiglio
l’Amore Tra I Vivi si è dileguato?
declina l’esultanza, e l’abbrivio,
per le sudate gaie
per le rincorse e il gioco spensierato
i salti per il tifo;
i buoni ideali smorti e trucidati.
Gli asili scarrupati
le case desolate.
Le Morti nei veli gualciti,
le falci erano grondanti lame;
strascichi rosseggianti
a terra! Quante figure beffarde,
scheletriche assestate
facevano i sortilegi
vittoria ridacchiavano a festa!
Questi altri UOMINI – VERI –
quelli trovati nella soccombenza
gli esiliati a forza dalla vita
giacevano giacciono afflitti
e sbrandellati sopra ogni riva
dagli approdi ostili
sotto le città fattesi macerie!
OGGI È ANCORA IERI!
Nelle veglie gli sguardi sbalorditi
strofinati a sangue dai misfatti
dal tempo turbinoso
dai fievoli incantesimi spezzati
si spengono sugli ardenti
lumini. E quando è d’uopo
che l’aria brilli e dormano i venti
le ali di metallo i siluri
partiti dai celati rifugi
lasciano strida e segni
negli abissi del cosmo;
a gara coi volatili fulminei
- dal becco duro e le rapaci grinfie -
del cibo morto
ancora caldo: gli avvoltoi voraci.
Il loro lauto pasto è sempre pronto.
Sull’ecumene sono
in agguato, protési agli assalti,
gl’ingordi rettili delle foreste;
gl’insetti delle spelonche e le fiere.
Le ossa i crani scoperti da poco
come rilucono di bianco avorio!
E tuttavia:
sarà la Terra una tomba sacrale
una Memoria viva!:
un MAUSOLEO grandioso; capace!
Il popolo senza dimora
le braccia alzando arruffando le mani
un gruppo un coro forma: e intona,
grida il salmo
alla violenza invitta del riscatto.
Suona per questi luoghi e le convalli
profonde, poi sulle ripide chine
sulle oasi amene e frondose
sui vulcani spenti; sulle cime
sui crateri e le eruzioni maliose
sugli acquitrini e le polle ascose
sulle paludi dove erge il papiro;
tra le ardue tende degli accampamenti
allestiti a filo
dagli uomini scaltri e irruenti
nei borghi e sulle ville alpestri
sulle fabbriche nelle ampie campagne:
il salmo alla violenza del riscatto!
Che blande risonanze!
PUR SE il loglio, con la veccia allato,
INFESTA
i floridi campi di spelta
e d’ingiallito grano
PUR SE SEMBRAVA
che il destino dell’uomo alla stanga
fosse la rotta piena, la sconfitta
una costante umiliante sconfitta,
che dovesse giacere stritolato
ed esanime: SE ancora oggi
nel mondo è il sopruso
la legge universale dei rapporti
umani, il sopruso e il sotterfugio,
se contro uomini veri – soccombenti –
c’è l’uomo della politica sporca
della politica di contrabbando
degli abusi e dei possedimenti
l’uomo che sfrutta corrompe insozza,
mai prepotente senza andarci piano,
l’uomo delle crociere
sui panfili privati
dei rapidi e comodi viaggi
in aviogetto e sulle cremagliere
che raggiunge i suoi lidi
sputati di catarro
lordi di merda i prosperi giardini
mentre i pesci di qualunque lago
e degli oceani calmi
agonizzano nei vasti liquami,
l’uomo – scritto a minuscola grafia –
quello delle meccaniche saette
dei fotoni e la nucleare energia
delle sordide forze obsolete
e “controllate”
e che forse ben altre
sorti stipavano per tutti noi;
se l’uomo che gode deride
non molla e ingrassa i lombi
sulle spalle dei Neri
dell’Africa e della terra vile
e lascia poche rimanenze e semi
di benessere e agio materiale
di serenità e gaudio
a questi UOMINI altri
che mai nessuno cingerà di lauro
cui mai nessuno oserà dire: santi!
(che poi anche le donne sottomesse
hanno le loro colpe
male sapendo esse
come andavano offerte
le rose dell’amore
LE LABBRA DELLA VITA
come potevano distendersi oltre
come dovevano distendersi oltre
sotto il maschio che spiga
per trascinarlo verso le distese
dell’Eden, e magari con le pompe
magne, giacché dal sesso, tanto, esse
non venivano e non
sarebbero più state sopraffatte;
le amàche non hanno spiegato e teso
poi non hanno saputo coltivare
le aiole, piantare i cedri e le palme
ai margini di limpide vasche –
intorno agli orti i fossi scavare);
ebbene: pur se sembrava SE SEMBRA
che sia il futuro una breve rovina
la disfatta morale o la resa
e la rassegnazione collettiva
perché ancora ci sono dei fiori
materni che di lebbra
imputridiscono: bisogna di ori
riempire le borse dei mercanti
di morte, abbisogna strasaziare
la fame delle tigri reboanti
di acciaio, sono NUOVE E GRANDI METE
come i fievoli astri non lontane
quelle che aspettano al varco La GENTE
Gli UOMINI DISGRAZIATI,
perché la luna, che ieri
allo spettacolo dei risultati
mefitici scagliava delle schegge
sul terraqueo globo
e ora è scarna di vita, tutta pietre,
il suo alone smorto,
pur se da un profluvio circondata
di artificiali satelliti e razzi
bagnata da industriale rugiada,
avrà un giorno (di fasti)
la nostra naturale minerale
acqua. E quando avverrà tutto questo
quando noi planeremo
su di essa, sul greto lunare,
sopra l’orbe terrestre
riverserà Selene con dolcezza
una pioggia clemente
che laverà qualunque nefandezza
della Terra. Quel dì nessun sospiro
sarà amaro oppure inerte
non lascerà in giro
alcuna traccia la civiltà buia;
i cavalli ombrosi le criniere
scuoteranno con brusca
impennata e dalle nari fiere
fiato nebbioso sbufferanno: quindi
i giganti di creta crolleranno
le brughiere imbrattate di detriti
d’immondizia e scorie diverranno
zolle feconde; mai più castreranno
i loro servi le laide matrone
le infuocate incontinenti donne
per i faraoni uomini a schiera
le alte piramidi non costruiranno.
Senza nessuna pena:
sarà facile un ricco spogliare
metterlo tutto nudo:
strappare basterà le sue carte
di proprietà. Nessuno
potrà reprimere quella rivolta
legittima e sfrenata.
L’occhio dello sparviero di già porta
quelle mete a scorgere in vicinanza.
Certo!: gli “uomini della soccombenza”
passeranno a guado i torrenti
come viandanti verso il RIFUGIO
SICURO
si bagneranno la bocca e i denti
l’arsura, salperanno con le navi
dopo e sui mari saranno dei prodi
quando scamperanno agli estremi assalti
degli ultimi predoni
(costoro, i pirati, non sapranno
arrestare la corsa alla giustizia
e libertà). Di notte brilleranno
sulle prue le lucerne
- ben si vedrà dalla battigia -
e i timonieri sopra le coperte
volgeranno occhio fisso alla fiamma
polare dell’Orsa Minore.
Saranno raggiunte isole ignote
quelle prefigurate nel programma,
che gli UOMINI si erano promessi:
della ferocia spersa nell’oblio.
Dove ubertosi saranno i terreni
nei boschi rigogliosi il cinguettìo
tornerà di passeri e usignoli;
le mattoline nelle stoppie folte.
E che campi erbosi!:
senza gramigna! Il LAVORO – dolce –
da canti accompagnato – melodiosi –
tranquillo sarà, e fruttuoso.
Che prosperità! La PACE; le quieti
nivali! L’UOMO
delle decorse, vinte soccombenze
frantumerà le reti
supererà le ultime barriere
taglierà il traguardo
posato sulla strada
dell’uguaglianza
dove si farà sfoggio memorando
e festoso di splendidi e vivaci
vessilli; le bandiere sulle aste
disposte a filari
non saranno mai e poi mai lacerate
o ammainate; avranno allegre
movenze al passaggio largo e lieve
del vento. Quel giorno le trombe
squilleranno. Sarà offerta giusta
testimonianza: POSITIVA, BELLA;
dell’epoca fatta di corse,
dalla mirabolante avventura,
dell’interplanetaria lunga era,
eterna, dalla speranza appagata
perché l’uomo, pur se in compagnia,
è oggi, in quest’aurora
ancora primitiva,
SPERDUTO
in vasta solitudine, quest’uomo
che sembra solo:

è solo pure quando procrea un figlio
s’inginocchia ama spera
quando egli prega
e abbraccia DIO

Ugo Bortolin
Autunno 1978